Scapigliati, che sfiga / 2

L$_35a piccola rassegna di sfortuna scapigliata prosegue con il geniale progettista della Galleria Vittorio Emanuele II: Giuseppe Mengoni, morto il giorno prima dell’inaugurazione.


Tabula rasa senza rimpianti
. La Scapigliatura fu anche fuga dall’asfittico panorama culturale italiano. Fu anche corsa verso la modernità. (Del resto, c’era da inventarsi una nazione, altro che social network). Ecco perché uno dei grandi traumi urbanistici di Milano, la risistemazione di piazza del Duomo della seconda metà dell’Ottocento, fu salutata con entusiasmo. Soprattutto perché il progetto prevedeva la realizzazione di un’opera avveniristica, stupefacente: la Galleria Vittorio Emanuele II. È vero, l’abbattimento del Coperto dei Figini e dell’intero Rebecchino (le due presenze un po’ straccione a ridosso della seconda cattedrale più grande d’Europa), suscitarono malinconie e rimpianti, ma quello che stava per arrivare era qualcosa di davvero strabiliante. Un po’ come successo per le Varesine e il Bosco di Gioia.

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Il progetto definitivo della Galleria Vittorio Emanuele II e della sistemazione di piazza del Duomo

Galleria portami via. Giuseppe Mengoni (quasi omonimo di un altro celebre architetto milanese) non era uno scapigliato, tutt’altro. Eppure la sua avveniristica galleria conquistò da subito gli scapigliati, che per primi occuparono i tavolini dei tanti locali aperti sotto le imponenti volte di ferro e vetro (ad iniziare dal Campari, e soprattutto il Caffè Gnocchi, vero simbolo dell’abbraccio tra modernità e bohème: fu il primo locale pubblico della città ad accendere una lampadina elettrica, davanti ai tanti habituè scapigliati, probabilmente già alticci. Anche se in realtà il loro preferito restava il caffè Gnocchi “storico”, quello in Galleria De Cristoforis). Scrive il grande Emilio De Marchi nel 1881, cioè quattro anni dopo l’inaugurazione dell’opera: «Vi fosse anche un misuratore della vita più o meno intensa d’una città, è nella Galleria Vittorio Emanuele che Milano andrebbe a collocare questo curioso strumento. Non avviene cosa infatti, non passa nell’aria rumore d’una festa o d’una sventura, di cui l’ottagono della nostra Galleria non risenta o poco o tanto l’influenza e non ne dia qualche segnale». Insomma, la Galleria divenne fin dalla sua apertura il cuore pulsante della città (a dire il vero, ci fu anche chi – inorridito – suggerì di trasformarla in un deposito per i mezzi della nettezza urbana…).

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Il cantiere per la realizzazione della galleria Vittorio Emanuele II

In vestaglia sulle impalcature. Ma veniamo al povero architetto Mengoni, che mai poté vedere ultimato al 100% il frutto della sua strabiliante matita. L’inaugurazione della Galleria avvenne infatti l’ultimo giorno del 1877. Fu una grande festa, alla quale però mancò uno dei protagonisti: chi quella galleria l’aveva progettata. Mengoni infatti era morto il giorno prima: il 30 dicembre. Abitava con la famiglia in uno degli appartamenti dentro la galleria: la sera del 30 dicembre, dopo cena, all’improvviso disse di dover andare a controllare qualcosa, s’infilò la vestaglia, uscì, s’arrampicò su una delle impalcature. E precipitò. Una morte terribile e dal tempismo spietato. Tanto che, all’epoca, qualcuno parlò di suicidio e addirittura omicidio. Qualcuno fece notare che non essendo l’opera ancora terminata (in realtà, la galleria era aperta e funzionava da anni, ma l’arco d’ingresso si trascinava, impacchettato alla Christo, da un sacco di tempo), c’era il concreto rischio che Mengoni dovesse sborsare una penale a tantissimi zeri. Qualcun altro disse invece che era rimasto molto (ma molto) amareggiato dall’annuncio della mancata partecipazione di Vittorio Emanuele II alla cerimonia d’inaugurazione (che fosse ormai in punto di morte – morì il 9 gennaio del 1878 – era notizia top secret). Il mistero se lo porterà nella tomba. Certo è che, a livello di antinfortunistica, non ci siamo proprio.

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La targa in onore di Giuseppe Mengoni all’ingresso della Galleria Vittorio Emanuele II

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