Liberata. Libera?

Lei si chiama Angiola (no, non è un errore), anche se tutti la chiamano Giò (che sembra già un nome di battaglia da partigiana). È una professoressa di francese. In realtà è in pensione da un po’ di anni, ma è una di quelle prof che, come dire, rimangono prof per sempre.

Tra le tante cose che la rendono speciale ce n’è una che è più speciale delle altre, soprattutto oggi. Sulla sua carta d’identità, affianco alla dicitura nata il, c’è scritto 25/04/1945.

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Che giornata! – Già, mentre la Brigata Matteotti entrava a Milano e i tedeschi scappavano dall’Italia cercando di evitare le granate, mentre i partigiani davano la caccia ai criminali fascisti fin dentro gli armadi delle loro case (“La storia non si ferma davvero davanti a un portone, la storia entra dentro le stanze, le brucia…”) e, un po’ dappertutto, risuonavano le raffiche di mitragliatrice, in una vecchia casa della più vecchia via di Cormano, allora solo un piccolo centro agricolo alle porte di Milano (ora famoso soprattutto per l’uscita dell’autostrada), una robusta donna di 38 anni dava alla luce una bella bimba coi capelli chiari. Una bimba nata insieme alla pace. Alla nuova nazione liberata dalla dittatura e dall’occupazione. La prima bimba libera.

«Quando nacqui – racconta la Giò – ci fu una discussione sul nome. Liberata, Libertà, Libera. Li proposero un po’ tutti intorno a quella parola che mi è sempre sembrata magica, Liberazione. Alla fine però prevalse la tradizione di famiglia e mi chiamarono come la mia nonna materna. Un nome che è comunque stato difficile da portare, spesso confuso con Angela e altrettanto spesso pronunciato con l’accento sulla O, con mia grande rabbia. Per questo tutti mi conoscono solo come Giò».

Quando ho realizzato che non era nata un qualsiasi 25 aprile, ma quel 25 aprile, che il suo compleanno era anche una celebrazione della nuova storia di tutto un popolo, devo ammetterlo, ho iniziato a guardala diversamente. Come una specie di predestinata.

«Mia mamma è sempre stata una persona molto riservata, quindi i dettagli di quella giornata incredibile non mi sono mai stati raccontati per intero. Quello che so l’ho messo insieme con vari spezzoni. I miei genitori, i miei fratelli, i parenti e persino gli anziani del paese. So di sicuro che sono nata in casa. Assistita dalla levatrice di Cusano Milanino (il paese vicino a Cormano, ndr). Andare all’ospedale sarebbe stato complicato e rischioso. Come mi hanno raccontato le mie zie, si sparava ovunque. Una donna incinta non era proprio il caso che si muovesse da casa».

Di corsa – La prima corsa fu quella, in bicicletta, per andare ad avvisare la levatrice. Di certo presa da tutt’altre altre questioni: che i tedeschi fossero in rotta lo si era capito da un pezzo, ma fu solo dal 24 aprile che la speranza diventò qualcosa di reale. Fu proprio intorno alle 13 del 24 aprile che si iniziò a sparare. E fu a Niguarda, comune confinante con Cormano in cui era cresciuta la mamma di Angiola, che vennero ammazzati i primi tedeschi. Tre militari accorsi in auto dopo uno scontro a fuoco tra i partigiani della Volante De Rosa e alcuni repubblichini. Fu quello il primo segnale dell’insurrezione.

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24 aprile 1945: barricate in via Ornato a Niguarda

La seconda corsa fu quella della levatrice. Che attraversò il piccolo tratto di campagna tra Cusano e Cormano col cuore in gola, attenta ad ogni movimento, ad ogni rumore. Gli echi degli spari, che stavano incendiando Niguarda, arrivavano anche lì (“Questo rumore che rompe il silenzio. Questo silenzio così duro da masticare…“). Così come le notizie dalle fabbriche di Sesto San Giovanni.

24 aprile 1944: scalinata della Breda, Sesto San Giovanni
24 aprile 1944: scalinata della Breda, Sesto San Giovanni

In casa – La casa in cui, trafelata, arrivò la levatrice era una vecchia corte, di quelle tipiche della provincia di Milano. Un cortile chiuso sui quattro lati, due dei quali destinati agli animali e al legname. C’era un cavallo, due mucche, qualche maiale, galline, conigli, qualche piccione. Un cane, due gatti. Per usare un’espressione originale, la vita era scandita dal lavoro nei campi (già, quello che ora è un’interminabile sequenza di rotatorie, capannoni e centri commerciali, fino a settant’anni fa era una distesa di terreni agricoli). E da quello nella rivendita di sementi. Una casa-comunità nella quale vivevano e condividevano ogni spazio la famiglia di Angiola – che contava già due maschi, Luigi e Pietro, di otto e cinque anni –  e le quattro sorelle nubili di suo papà (una ben strana comunità, a pensarci). Un (a)tipico nucleo di agricoltori della provincia di Milano, che faticosamente cercava di trovare altre strade, oltre quelle nei campi.

Tentativi che la guerra trasformò in affrancamento definitivo.

Il fascismo, il conflitto, l’occupazione calarono come una gramigna su una realtà rurale come quella di Cormano. Trasformandola. In un certo senso, preparandola al peggio: la sua cioè quasi totale scomparsa, avvenuta, gradualmente a partire dagli anni 50. Rivoltata come un calzino per rispondere alle esigenze abitative, di un’area – quella di Milano e della sua provincia –  che nei venticinque anni seguiti alla Liberazione, vide la popolazione residente più che raddoppiata. La città di Milano passò da 1,2 milioni del 1946 a oltre 1,7 milioni nel 1970. Cormano dai circa 4.000 abitanti degli anni 40 agli oltre 20.000 degli anni 70. E l’agricoltura, anima e maledizione di questo piccolo paese, venne relegata negli orti domestici. Sempre più piccoli. Che poi lasciarono il posto al parcheggio per l’auto.

Uno spettacolare salto mortale. Economico, sociale, culturale. Innescato proprio da quel 25 aprile.

Una giornata in cui una nazione intera, con le armi in pugno, trasformò il presente in un passato remoto. E provò a ricominciare tutto. Qualunque cosa questo significasse.

Ancora Giò: «Sono molto orgogliosa di questa data di nascita, che trovo una sorta di benedizione e di incoraggiamento. Segna la fine di un’orribile guerra, di lutti, di rovine, di lotte interne ed esterne, di tragedie. È anche, però, una speranza, un punto di partenza, una volontà di costruire sulle macerie, lo slancio di persone che tenacemente volevano preparare un futuro più umanamente degno. Questo pensiero mi ha sempre accompagnato, con la volontà di impegnarmi per compiere passi avanti, anche a costo di fatiche».

E questa data per Giò è stata davvero d’incoraggiamento. Ha lottato, ha conquistato e difeso con i denti i suoi spazi, le sue scelte. Si è ritagliata un futuro inventato da lei. Da ultima femmina arrivata, a prima storica laureata di tutta la famiglia. Lingue alla Bocconi. E poi l’insegnamento. L’amore. Il matrimonio con Luciano. Anche lui professore. Il sindacato. Poi i viaggi. I tanti viaggi in giro per il mondo. Quando viaggiare significava innanzitutto misurarsi con l’imprevisto e l’imprevedile. La Cina, l’India, l’Estremo Oriente, l’Africa. Spinta dalla curiosità e dalla passione per le persone, le lingue, le culture. Poi il lutto. Luciano che se ne va troppo presto. La nuova vita da sola. L’avventura, altrettanto esaltante e imprevedibile, del volontariato all’ospedale di Niguarda. I suoi amati gatti. La montagna.

Tutto iniziato quel 25 aprile.

E come sarebbe bello potersi illudere che la nazione nata insieme a lei avesse preso gli stessi tratti del suo carattere. Forte ma anche curiosa, aperta, disponibile. Spiritosa. Già, sarebbe bello. E infatti ci proviamo ogni anno. Ogni 25 aprile.

Auguri Giò. Di cuore.

E buon 25 aprile.

 

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