Le hanno chiamate Favole del Sangue. Sono mirabolanti palazzi narrativi con fondamenta reali ma muri fatti di mattoni immaginari, realizzati impastando tradizioni, paure ancestrali, semplice isteria collettiva. Anche a loro, come a tutto, la Storia trova un senso. Una direzione. Nel 700 rappresentavano una sorta di fronte reazionario armato contro il fervore razionalista. A Parigi come a Milano. Parigi iniziò con una specie di vampiro e si ritrovò la Rivoluzione. Milano con una belva assassina e si ritrovò la Tangenziale, la Brebemi, la Pedemontana, la Varesina, la Gallaratese, la Briantea, la Arcisate-Stabio.
“Un individuo nella folla è un granello di sabbia fra altri granelli di sabbia, mossi dalla volontà del vento”. (Gustave Le Bon, Psicologia delle Folle – 1895)
IL POVERO LABBÈ – È il 24 maggio 1750, due del pomeriggio. A Parigi, intorno a Rue de Saint Honoré (sì, proprio la strada del Convento dei Giacobini, trasformato nel 1789 in Club dei Giacobini) un tizio è inseguito da una folla inferocita. Lo hanno già bloccato, e bastonato, un’ora prima, ma poi, anche grazie alle suppliche di una lavandaia, è riuscito a scappare e confondersi tra la moltitudine di un mercato. Ora pare l’abbiano di nuovo a portata di mano e bastoni e pietre. Di lui si conosce solo il cognome: Labbè. Dopo ore di fuga è esausto. Lo hanno colpito alla testa, al torace, alle gambe. Sanguina. È la disperazione che continua a farlo correre. Un gruppetto riesce finalmente a bloccarlo di nuovo. Non sanno bene cosa farci. Tra loro c’è un ex militare che convince gli altri a portarlo a casa del commissario Delavergée, lì vicino.

Una volta dentro Labbè crede di essere salvo. Si sbaglia: la voce della sua cattura come una freccia (che) dall’alto scocca, vola veloce di bocca in bocca. In poco tempo la folla rabbiosa si raduna fuori dal palazzo. Piovono pietre sulle finestre, viene sfondato il portone: decine di persone si riversano nell’androne, il primo piano viene devastato. Delavergée, terrorizzato, non ci mette molto a decidere di consegnare Labbè. L’uomo viene così agguantato in malo modo e trascinato per i capelli fino alla vicina chiesa di San Rocco (un posto che – coincidenza? – sarà importante durante la Rivoluzione ma anche, singolarmente, fondamentale per la storia d’Italia e che merita una piccola digressione. Fu qui infatti che, nel 1810, Alessandro Manzoni si rifugiò, disperato, dopo aver perso nella folla la giovane moglie Enrichetta Blondel. Non essendoci ancora telefoni e/o trasmissioni televisive ad hoc, Manzoni si rivolse a Dio, della cui esistenza non era ancora del tutto convinto, implorandolo di poterla rivedere. All’uscita la ritrovò – a quanto pare s’era fermata a provare delle scarpe in saldo – e, in pratica, cambiò la storia della letteratura italiana).

Labbè viene ucciso a sassate e bastonate (nonostante le proteste di una donna che – diranno i testimoni – sosteneva non bisognasse ucciderlo, ma solo rompergli le gambe). Ma non è abbastanza. Il cadavere viene trascinato fino alla casa del luogotenente Nicolas René Berryer, il numero uno della polizia (protégé di Madame de Pompadour). Anche qui volano sassi contro le finestre. Infine si cerca, senza successo, di crocifiggere Labbè al portone d’ingresso. Il cadavere viene poi abbandonato per strada, come un divano sfondato.
Chi è – Labbè appartiene a una delle categorie più odiate nella capitale francese della metà del 700: è una spia della polizia, una mouche. La rabbia contro di lui è esplosa perché una donna lo ha visto parlare in maniera sospetta con un bambino. È la prima “vittima” della rivolta contro la polizia che sta incendiando Parigi dall’inizio di maggio. Una rivolta spontanea e violenta, esplosa come reazione alle tante, troppe, sparizioni di bambini. Per le quali i parigini hanno un sospettato d’eccellenza: la polizia.
Qualche anno dopo, circa 850 chilometri più a sud…
IL POVERO GIUSEPPE – È il 4 luglio 1792: un giorno come tutti gli altri per il giovane Giuseppe Antonio Gaudenzio, dodici anni, figlio di poveri contadini di Cusago, piccolo villaggio alle porte del grande bosco che sorge ad ovest di Milano. Porta l’unica vacca che possiede la sua famiglia a pascolare al limitare del bosco. All’improvviso però l’animale, come spaventato da qualcosa, scappa nel folto della vegetazione. Giuseppe non riesce più a vederla. Disperato, la cerca ovunque, la chiama, la implora. Ma della mucca non c’è traccia. Quando ormai il sole inizia ad abbassarsi, rassegnato, torna verso casa. Ha ancora una piccola speranza: che la bestia abbia trovato da sola la via. “Sì, sì – ripete a se stesso – quando arrivo la trovo di sicuro nella stalla”. Ad attenderlo invece trova solo gli occhi furiosi di suo padre che, vedendolo arrivare senza l’unica vera ricchezza di famiglia, lo fulminano ancora prima di varcare il malconcio cancelletto di legno. È solo la presenza della moglie, sull’uscio di casa, che lo trattiene dallo scagliarsi contro il ragazzino. «Vai a cercare la vacca e non provare a tornare finchè non l’hai trovata!».
«Alla mattina il padre sentì rimorso della sua crudeltà; e ‘l dolor, e ‘l pianto della moglie glielo raddoppiava: corse al bosco: dopo molti giri trovò la vacca, che tuttavia pascolavasi: chiamò lungamente il figlio, che mai rispose; e lo pianse perduto, senza sapere qual fine avesse fatto. Solo dopo alcuni giorni seppe che si era trovato un giupponcino, e de’ calzoncini lordi di sangue, un cappello, e alcuni avanzi del corpo di un fanciullo divorato».

Il povero Giuseppe è la prima vittima della Bestia Feroce che diventerà la protagonista dell’estate di terrore milanese del 1792. Una belva misteriosa, subdola e insaziabile, che in poco più di due mesi ucciderà, sbranandoli, una dozzina di bambini.
PARIGI, DICEVAMO – Il brutale omicidio di Labbè è solo l’ultimo di una serie di esplosioni di rabbia collettiva contro la polizia che caratterizza il maggio parigino del 1750. La popolazione è scossa dalle continue notizie di sparizioni di bambini che da aprile stanno diffondendo una vera psicosi in città. Dopo l’omicidio di Labbè, che segue quello di altre quattro persone – rimaste uccise “accidentalmente” durante le rivolte – e il ferimento di alcuni agenti, il Parlamento di Parigi apre un’inchiesta ufficiale. Durante la quale emergono tre differenti ipotesi.
Prima ipotesi. Un grande classico: il complotto. Durante la sua deposizione, il capo della polizia dichiara di essere convinto che, per fini politici, qualche agitatore ha diffuso notizie false su rapimenti di bambini da parte della polizia e dei loro collaboratori. Alcuni testimoni citati dalla polizia sostengono di aver visto degli estranei distribuire soldi ai rivoltosi (altri testimoni sostengono che non fossero soldi, ma manici di scopa. Il che, converrete, fa una certa differenza).
INCUBO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE – Nell’estate del 1792 nelle campagne intorno a Milano si muore sbranati. Un mostro si aggira nel buio dei boschi. Un mostro affamato e sadico. Di fronte a tanto orrore, e tanta meraviglia, un anonimo scrittore, forse un giornalista in erba, mette insieme uno strabiliante (ad iniziare dal titolo) “Giornale circostanziato di quanto ha fatto la bestia feroce nell’Alto Milanese dai primi di Luglio dell’anno 1792 sino al giorno 18 Settembre” (conservato alla Braidense). Un documento che racconta tutto con una dovizia di particolari davvero inedita. Ma che lascia senza risposta la domanda principale: che animale è?

La Lupinghiena – La base è un lupo, di cui la campagna intorno a Milano è piena (più che mai nel 1792, come spiega il Giornale Circostanziato: «[…] Le piogge eccessive hanno inondato molte valli, e ingombrato il soggiorno e ‘l covile delle lupe, che presso di noi son venute a sgravarsi, del che abbiamo argomento in alcuni lupacchiotti, che si sono uccisi nel bosco di Cusago»). Ma insieme al lupo, dentro al lupo, ci sono anche altre fiere. La descrizione ritenuta più verosimile la fornisce Antonio Nobili, contadino «poco robusto» di Senago (altro piccolo villaggio, a nord questa volta, che sorge alle porte della grande, e selvaggia, brughiera chiamata Grovana. Quello che resta oggi – una parte infinitesimale – si chiama, appunto, parco delle Groane) che si trova – armato del solo «falciuolo» – faccia a faccia con la Bestia. Ecco come la descrive, «per quanto la paura gli permettea di vedere»:
«Lunga due braccia, alta uno e mezzo, con testa porcina, orecchie cavalline, pelo caprino lungo folto, e bianchiccio sotto il ventre, e più ancora sotto il mento, e alla coda, che lunga era e spiegata, ma era rossiccio e corto sul dorso: gambe sottili, piede largo, ugne lunghe e grosse, largo petto, e stretto fianco».
Alla fine di agosto invece, dopo i tanti insuccessi nella sua cattura, si diffonde la voce che in realtà le belve siano due. Un sorvegliante dei possedimenti di Cusago del marchese Stampa (sì, esatto proprio quello Stampa la cui discendente, Anna Maria Casati Stampa, a soli 19 anni e consigliata dal tutore legale, tale Cesare Previti, svenderà terreni e ville ereditati dal nobile casato a uno strano tipo di nome Silvio Berlusconi che così riuscirà a tirare su una città intera, Milano 2) è sicuro che il pericolo sia duplice:
«La più grossa è tutta rossiccia con una striscia bianca sotto il ventre: ha la testa simile a quella di un vitello; occhi grossi, e grandi, coda sottile, e riccia, con un fiocco di pelo bianco in cima, e piuttosto lunga e fa sbalzi nel fuggire come un Capriuolo: l’ altra più piccola, eguale ad un grosso cane di colore cenericcio piuttosto biscione, cioè a strisce ondeggianti con coda corta, e testa grossa, ed il muso simile a quello di un majale, magra di vita, e questa è una Bestia molto brutta a vedersi, laddove la più grossa, è molto bella, e ben fatta».
Nessuno sa davvero come sia fatta questa bestia. (C’è anche chi sostiene che sia una delle due iene esposte a Milano a marzo. In effetti l’incaricato che va a interrogare il proprietario dei due animali lo trova con uno solo dei due. Circostanza sulla quale fornisce versioni discordanti. Dopodiché lascia la Lombardia, c’è chi sostiene perché spaventato dalle troppe voci, e si trasferisce all’estero: in Veneto).
Si sa solo che preferisce prede giovani, meglio se fanciulle.
Che sbrana e uccide. Ecco la descrizione del cadavere di una vittima:
«Livido n’era, e sommamente gonfio il volto; ma mancante del naso: mangiato n’era il petto, e quanto restava esposto alla voracità della Fiera di quel corpo supino: le braccia, le gambe, e gli intestini separati dal corpo erano rimasti come un rifiuto; ma il fegato era stato mangiato in parte: del vestito non vedeasi, che qualche resto di camiscia lorda di sangue».
Seconda ipotesi: ACAB – La seconda ipotesi (che sarà quella accettata dal Parlamento, e dalla storiografia) che emerge durante il processo sulla morte di Labbè sostiene che le rivolte siano spontanee manifestazioni di rabbia contro l’iniquità e la violenza della polizia. Viene spiegato che i “rapimenti” dei bambini non sarebbero altro che gli arresti di giovani, e giovanissimi, libertini, vagabondi, semplici disoccupati, effettuati da agenti in borghese, senza spiegazione e soprattutto conducendo i fermati direttamente in prigione. Una volta in cella, le famiglie degli arrestati dovevano sborsare cifre consistenti, fino a sei lire (lo stipendio mensile di un muratore era circa 20-25 lire), sia per un trattamento umano, sia per farli uscire prima. La sorte di chi veniva arrestato era quindi quanto mai incerta, legata all’arbitrio delle guardie. Il cui rapporto con le famiglie degli arrestati non era certo istituzionale: trattare sul prezzo era la norma anche qui.
Alla fine sarà proprio la polizia ad essere condannata, rendendo evidente una frattura che andava formandosi da anni. Destinata a diventare poi decisiva. Da una parte il Parlamento (e il popolo), dall’altra la Polizia, istituzione legata a doppio filo con la monarchia (fu Luigi XIV a istituire un primordiale corpo di polizia a Parigi, nella metà del 600). Una voragine sulla quale verrà costruita la strada che porterà – 40 anni dopo – alla Bastiglia.

I SOLITI ZOTICONI – Le autorità milanesi, all’inizio, sottovalutano gli episodi. Ma quale belva! Saranno lupi, dicono. I contadini, si sa, hanno più fantasie nella testa che piante infestanti nell’orto (e piante infestanti ne hanno parecchie). Le morti però proseguono. La Conferenza Governativa (quella che potrebbe essere considerata l’attuale Giunta comunale con la differenza, molto d’attualità, di essere nominata direttamente da Vienna) decide allora di pubblicare un avviso pubblico e mettere una taglia sull’animale: 50 Zecchini. Viene anche decisa la mobilitazione – retribuita a giornata – degli uomini d’armi (che comprendevano anche i contadini che avevano il privilegio, concesso dal signore per cui lavoravano, di tenere un’arma) e delle guardie di finanza (che non c’entrano nulla con le Fiamme Gialle). Le morti però proseguono. Viene allora aumentata la taglia: 100 zecchini. Poi 150. Poi 200. Una vera fortuna, a cui si sarebbero aggiunti i premi dei vari signori del contado. Tanto che il cronista del Giornale Circostaziato sottolinea che «Il contadino, che l’uccidea cambiava stato, e divenia maggiore di tutti i suoi pari. L’ esuberanza di questo premio accrebbe ai cacciatori la vigilanza. Alcuni vennero dalla Valassina, ed altri da Valsasina, paese, ove non di rado si ha a combattere co’ Lupi, e cogli Orsi». Insomma, in poco tempo le campagne della zona nord occidentale di Milano diventano una specie di gardaland dei cacciatori.

«Innumerevoli cacciatori a loro s’ unirono, mossi altri da zelo, altri da curiosità, altri dalla voglia di divertirsi, e di ridere; percorsero le campagne di que’ distretti, ove la Bestia soleva aggirarsi; ma le grida, gli urli, i fischi e più di tutto i tamburi avvertiano la Fiera dell’assalto che le si minacciava. O cheta siasi ella appiattata, o sia fuggita in più lontana parte, certo è che nessuno la vide».
Una specie di mobilitazione generale, insomma, del tutto inutile. Anzi, dannosa. «Non solo fu inutile questa Caccia generale; ma fu anche nocevole. La Campagna nostra era in que’ dì, e lo è tuttora coperta dai grani minuti, e dalle viti, ove non sono prati irrigati, o risaie. Tante persone, che vagavano senza direzione, dovevan’ apportare considerevol danno, e ve l’ apportaron difatti; onde sen’ ebbero pubbliche lagnanze. Considerevole altronde era stata l’inutile spesa della Regia Camera, che a tutti gli Uomini d’armi pagò la giornata».
Le cose, dunque, non vanno affatto bene. E i bambini continuano a morire sbranati. Dopo poco più di un mese, la Conferenza fa marcia indietro. Viene investito della questione il Magistrato Politico Camerale, organismo del quale fa parte Cesare Beccaria (sì, esatto, il nonno di Manzoni, tra le altre cose…), che si occupa in prima persona della vicenda. E decide di utilizzare metodi tradizionali (e più economici). Congeda gli uomini in armi e invita i cacciatori forestieri a sloggiare. E fa tappezzare la campagna di fosse lupaie. Ne decide anche il numero: 30.
Nel frattempo il solito esagerato si è messo a stampare addirittura il classico “Metodo Infallibile Per”:

Terza ipotesi: il Principe vampiro – L’ultima ipotesi emersa durante il processo per l’uccisione di Labbè, la vera Favola del sangue, è una sorta di spin off horror della seconda (polizia infame). Tra il popolo, da un po’ di tempo, si è diffusa una convinzione terribile: a Versailles c’è un membro della famiglia reale che per curare la lebbra, o un’altra simile misteriosa malattia, deve fare dei bagni di sangue. Sangue che però dev’essere il più puro possibile. Sangue di bambino, appunto. E ha incaricato la polizia di procurargli il materiale per riempire la sua grande vasca. C’è chi sostiene che il mostro sia addirittura lo stesso Delfino (Luigi Ferdinando di Borbone, che effettivamente era un tipo un po’ malaticcio e morì di tubercolosi a 36 anni, prima di poter salire al trono. Cosa che invece riuscì a suo figlio, quello che diventerà Luigi XVI: primo sovrano ad essere ghigliottinato, il 21 gennaio del 1793).

Il processo del Parlamento parigino escluderà – ci mancherebbe – questa ipotesi. Ma quello che stabiliscono i palazzi del potere sono una cosa, quello che le persone per strada pensano, e dicono, è un’altra. E chissà che non ci fosse anche l’immagine di un principe nudo adagiato in una vasca (d’oro) piena di sangue innocente nella mente di Robert François Damiens quando, nel 1757 (sette anni dopo i fatti di Rue di Saint Honorè), si avventò con un coltello su Luigi XV mentre usciva da Versailles. Un tentativo che si impresse nella memoria collettiva parigina come una profezia, così come rimase negli occhi (e negli stomaci) di tanti parigini l’incredibile supplizio pubblico a cui fu sottoposto il povero Damiens.
«[…] tanagliato alle mammelle, braccia, cosce e grasso delle gambe, la mano destra tenente in essa il coltello con cui ha commesso il detto parricidio bruciata con fuoco di zolfo e sui posti dove sarà tanagliato, sarà gettato piombo fuso, olio bollente, pece bollente, cera e zolfo fusi insieme e in seguito il suo corpo tirato e smembrato da quattro cavalli e le sue membra e il suo corpo consumati dal fuoco, ridotti in cenere e le sue ceneri gettate al vento».
Un’esecuzione che si rivelò più complessa del previsto, piena di ostacoli e sorprese, di cui dà un ampio e crudissimo resoconto Michel Foucault nel suo “Sorvegliare e punire”.
MORIRE DAL RIDERE – Niente sembra dare fastidio alla Bestia che continua ad aggirarsi nei boschi intorno a Milano. E a uccidere. Ma, come si dice, bisogna pur tirare avanti. E, in qualche modo, si cerca di trarne anche un vantaggio. Per esempio, mettendo in piedi un piccolo commercio di stampe e figure intagliate: «innumerevoli erano le botteghe, e gli angoli delle strade, ove tali figure si vendeano». E qualche audace buontempone si spinge anche più in là.
«Faceta fu la burla che molti garzoni di bottega fecero ad un oste. Essi armati di schioppo, e sciabola avviaronsi alla Caccia sul mezzo dì essendo presso a una buona osteria un buon pranzo ordinaronsi, e avendo deposte le armi, che l’ oste addocchiate avea come un pegno, fecero gozzoviglia. Sul finire del pranzo prima che l’oste portasse il conto, ecco, uno arriva ansante, e annuncia nel vicin Campo c’è la Bestia: ognun corre all’armi, ognuno balza fuori armato. L’oste tripudia perchè presso all’osteria sua verrà uccisa la fiera. I cacciatori si sbandano, e l’Oste col conto in mano li aspetta ancora».
COINCIDENZE, SEMPRE COINCIDENZE – Alla fine il metodo “classico” delle fosse lupaie si rivela vincente. E finalmente la Bestia viene catturata «presso Cassina Comina, in un campo detto la Crosazza della Pobbia fuori di Porta Vercellina distante da Milano miglia num. 5 circa». In realtà si tratta di un grosso lupo, circostanza che fa dubitare a molti che si tratti proprio della Bestia. Ma quello che conta è che, da quel giorno, di gole squarciate, interiora divorate, corpi dilaniati non si sentirà più parlare. È il 18 settembre 1792. Un martedì. Il venerdì di quella stessa settimana, a Parigi, l’Assemblea Nazionale dichiara che la Francia è una repubblica e quel tale con quel nome ridicolo, quel Louis Capet, è condannato a morte tramite decapitazione.
ALLA FIN DELLA FIERA – Quella che esce dalla vicenda della Bestia Feroce è l’immagine di una città ancora “minacciata” dalla campagna. Una città rurale grande più o meno quanto l’attuale Monza (ancora agli inizi del 1800 Milano aveva poco più di 120mila abitanti) alle prese con il suo contado.

Il buio dei boschi, le loro leggi misteriose, il silenzio del sangue cingono la città. La assediano in qualche modo. La tengono incatenata, con la forza della leggenda e della superstizione, al suo passato. E, chissà, forse è qui l’origine della diffidenza che la città ha sempre dimostrato nei confronti della natura che la circonda(va). E che, negli anni, l’hanno portata semplicemente a cancellarla. Preferendole strade (tante): secondo i calcoli dell’ACI, nel 2005 in Lombardia c’erano 32mila chilometri di strade (e dal 2005 non sono certo diminuite). E palazzi (tantissimi): in base agli ultimi dati di Legambiente, solo negli ultimi 15 anni in Lombardia sono stati gettati 110mila metri quadrati di cemento al giorno. Ogni giorno degli ultimi quindici anni. Infine, secondo l’ultimo rapporto Ispra (con dati relativi al 2012), a livello di consumo di suolo, la provincia di Milano (24%) è seconda solo a quella di Napoli (29%). È il progresso, si dirà. E se fosse invece vendetta? Se fosse invece, ancora una volta, paura?
Del resto, ci spiega benissimo il caro Roquetin nella “Nausea” di Jean Paul Sartre (1938), vivere in una città non è certo una condizione pacifica:
«Ho paura delle città. Ma non bisogna uscirne. Se ci si avventura troppo lontano, s’incontra il cerchio della Vegetazione. La Vegetazione ha strisciato per chilometri verso le città. Attende. Quando la città sarà morta essa l’invaderà, s’arrampicherà sulle pietre, le imprigionerà, le rovisterà, le farà scoppiare con le sue lunghe pinze nere, ne accecherà i buchi e lascerà pendere dappertutto delle zampe verdi. Bisogna restare nelle città fintanto che son vive, non bisogna penetrare da soli in questa grande chioma che è alle loro porte: bisogna lasciarla ondeggiare e crollare senza testimoni. Nelle città, se ci si sa aggiustare, se si sa scegliere le ore in cui le bestie digeriscono o dormono nei loro buchi, dietro i mucchi di detriti organici, non s’incontra altro che minerali, i meno spaventosi degli esistenti».

Ghost track – (È vero, sarebbe stato più sensato e pertinente il confronto con la bestia di Guevaudan, ma stranoamilano.it ha deciso, fin dalla sua fondazione, di sostituire le parole sensato e pertinente con assurdo e fuori luogo).