Una tortilla chiamata Gesù

Quando il Leicester di Claudio Ranieri ha vinto la Premier League, in mezzo al tripudio di complimenti e alla retorica dell’underdog, è uscito anche un articolo dell’Economist in cui si spiegava che, sì, va bene l’entusiasmo, ma insomma, bisogna andarci piano con le fanfare in onore di questi parvenu del successo. La tesi del settimanale, in estrema sintesi (l’argomentazione era ricca e a prova di patetismo romantico), è che enfatizzando casi come quello del Leicester si alimentano illusioni inutili, se non addirittura dannose. Se eri sfavorito, un motivo c’era – dice in pratica l’Economist – è meglio che ti concentri su quel motivo piuttosto che sperare in un miracolo, anche se fatto di duro lavoro, determinazione e sì, magari anche talento.
Ecco, i Management del Dolore Post Operatorio da Lanciano sono un po’ il Leicester dei nomi delle band. Nonostante infatti si siano scelti un nome quanto meno ostico, che di certo non li faceva partire avvantaggiati, sono riusciti lo stesso a ritagliarsi un certo spazio sulla scena nazionale. E, ok non hanno vinto nessuno scudetto, però il primo maggio del 2013 si sono esibiti su uno dei palchi più importanti d’Italia: quello di piazza San Giovanni. Mostrando, è proprio il caso di dirlo, gli attributi.

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Luca Romagnoli, frontman dei Management del Dolore Post Operatorio alla fine dell’esibizione del Primo Maggio 2013 in piazza San Giovanni a Roma

I Management del Dolore Post Operatorio sono gli ultimi cavalieri di una crociata nella quale si sono arruolati negli anni centinaia, migliaia di musicisti: quella del nome più assurdo possibile. E, come tanti altri prima di loro (a ben vedere neanche Scarafaggi suona molto invitante), hanno di fatto illuso una moltitudine di band. Il loro “successo” suggerisce infatti che sul nome da scegliersi si possa davvero essere liberi. Fantasiosi. Spregiudicati. Strani. Del resto darsi un nome è anche inventarsi una storia e immaginarsi un futuro.

IL DOGMA – La “lezione” dei Mddpo sembra avere funzionato soprattutto a Milano, città imbottita di agenzie pubblicitarie e di marketing. Un posto in cui, tra gli scampoli di conversazione in cui inciampi al bar (un po’ come potrebbe capitarti in treno dopo aver letto il tuo necrologio), potresti sentire cose tipo «Il Naming è fondamentale» oppure «Se il tuo prodotto ha un buon nome, metà del lavoro è già fatto» o anche «Ma chi se ne frega se fa schifo, il nome funziona». Ecco, la legge fondamentale è che il nome deve funzionare. Cosa questo precisamente significhi nessuno lo sa, ma non fa nulla. Quello che conta è la sorprendente risposta che la scena musicale cittadina ha dato a questa legge immutabile del mercato.
Così, ecco una piccola rassegna di gruppi con base a Milano (e provincia) che, ognuno a modo proprio, hanno sfidato il dogma del nome. (Rigorosamente in ordine alfabetico).


Iniziamo dai più coraggiosi di tutti: i Craxi. Difficile immaginare infatti un nome più respingente di quello associato al faccione di Bettino. I Craxi erano un side project di musicisti di culto come Enrico Gabrielli, Luca Cavina (Calibro 35), Alessandro Fiori (Mariposa) e Andrea Belfi. Il loro bellissimo “Dentro i Battimenti delle Rondini” fu un piccolo (grande) caso nel 2012. («Le mosche accompagnano le truppe nel bosco, proprio qui dove un tempo c’era il centro di Milano»). Il grande rimpianto – oltre a non  averli più sentiti – è che dai Craxi non sia nato un filone di nomi Prima Repubblica. Ce ne sarebbero di così belli (De Mita Solitaria, Così Fanfani Tutte, Intinity, Money Forlani).

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I Craxi: Alessandro Fiori, Luca Caviva, Enrico Gabrielli e Andrea Belfi

Proseguiamo con l’ardito accostamento dei Cronaca e Preghiera, duo electro-rock di Rho con all’attivo un ep omonimo autoprodotto, che si segnala soprattutto per l’invettiva romantica sull’esosità mondana della (ex?) partner del cantante: Costa meno andare a troie.

Puntano sul politicamente scorretto i Deluded by Lesbians (citazione degli inossidabili Guided by Voices?) che, prima di lanciarsi nelle cover power pop dei classici italiani nell’ultimo disco (Fotoromanzi, 2016), avevano realizzato “Heavy Medal”, un doppio cd in cui spiccava, tra le altre, I maiali non sono fini gastronomi («Li guardo per ore non sono come me, non mangiano mica il caviale o il pathè»).

 

Senza entrare nel merito musicale, ma rimanendo solo a livello di nome, Franco e la Repubblica dei Mostri, sono purtroppo una delusione. Chi infatti pensava a una risposta ironica e democratica a Carletto il principe dei Mostri, ascoltando il loro lavoro omonimo, rimarrà con l’amaro in bocca. La Repubblica dei Mostri è infatti una seriosissima definizione dell’Italia e, più che ai cartoni animati anni 80, il riferimento è a Dino Risi.

Citazione storica invece per l’attivissimo mc reggae Viviano Pulvirenti, in arte Gamba de Lenk. Il suo nome accosta il tram a vapore che univa corso Vercelli a Magenta e la tag con cui il giovane Viviano indicava il suo passaggio sui muri della città (esatto, se sul vostro portone avete trovato la scritta Lenk tracciata con una bomboletta, l’ha fatta lui).

 

Strappano un sorriso anche i non più giovanissimi Http 404, che hanno scelto la sigla di errore molto nota a tutti quelli che hanno una connessione internet: sigla che indica “file non trovato”. Come direbbe un informatico, non ce ne voglia il quartetto milanese, se non è stato trovato un motivo ci sarà.

E veniamo ai più temerari: i I let you steal the name of Jesus on a tortilla, asshole! A dire il vero, le uniche notizie sul conto di questa formazione si trovano nella loro pagina su Rockit e non sono del tutto attendibili. Come non del tutto digeribili sono i quattro pezzi caricati, talmente lo-fi da far sospettare (citando il caro Bugo) un più problematico Ci-sei. Comunque, se le canzoni sono francamente inascoltabili, il nome in compenso è memorabile.

Nettamente più mainstream, almeno nelle intenzioni, il progetto pop I miei migliori complimenti, con all’attivo un solo Ep, il concept “Le disavventure amorose di Walter e Carolina”, che dovrebbe essere il primo di una trilogia sullo stesso appassionante argomento. Per ora si segnalano solo per alcune ardite metafore, come: «Capiva quello che avevo dentro, che è un po’ come quando ti si intrecciano le cuffie in tasca».

A dispetto del nome, Il cubo di Rubik monocromo si prendono molto sul serio. E se il nome suscita un pensiero sorridente, non altrettanto fa, purtroppo, il titolo (e la musica) del loro unico disco autoprodotto: “Quarantatré Miliardi di Miliardi di Possibili Combinazioni (in una sola mossa)”. Scusate ragazzi, ma c’è un limite a tutto.

Un caso a parte sono gli inclassificabili Il culo di Mario. Una band che, fossero inglesi o americani (o anche danesi o di San Marino), si griderebbe al miracolo ad ogni Ep. E invece qui da noi di solito strappano un «Ma davvero?». Difficile scegliere qualche verso per inquadrare la poetica di questa band che definire d’avanguardia sarebbe troppo, e infatti nessuno si azzarda a farlo. Si potrebbe provare con l’incipit del pezzo che li ha resi celebri, Osvaldo: «L’altra sera son tornato a casa e ho scoperto mia moglie che trombava un altro, Osvaldo. C’è la crisi oggi come ieri, c’è mia moglie che schiaccia i punti neri, a Osvaldo». Oppure il grido di dolore di Apericena: «Han vomitato sul parquet!». O ancora gli spiazzanti salti spazio temporali de Il tamburo della giungla «Mentre scaldo una polpetta tropicale, in viale Montenero è già Natale». O, per finire, il malinconico degrado di Rogoredo Dreamin’ «Nel deserto c’è un’oasi di cemento, che segreto hai nel doppiomento?».

 

Si segnalano invece soprattutto per la modestia, al limite del patologico, i Io Non Esisto. Ai quali ci permettiamo di suggerire un Doppia Negazione Tour con I Niente.

Tocca adesso agli Yellow Capra, ormai purtroppo sciolti, gruppo strumentale di culto dei primi anni 2000. Un nome che declina al surreale un filone piuttosto ricco: quello relativo agli animali. Anche se, vista l’attitudine cinematografica della band, più che agli ovini, viene da pensare al regista de “La vita è meravigliosa” trasformato in un Minion. Di strano gli Yellow Capra non avevano solo il nome. Uno dei loro pezzi più celebri è infatti Topo Morto & Mini Mucca. 

Piuttosto misteriosi i Malmostoso & the Chromatic Exprerience, per i quali è praticamente impossibile mettere insieme qualche informazione. Peccato, il nome prometteva bene.

Doppia ipotesi per l’ispirazione dei sestesi Neurodisney: o gli olandesi D.A.D. (Disneyland After Dark) o uno dei primi successi di Lillo e Greg. A voi la scelta.

Di origine teatrale invece il progetto Nina Madù e le Reliquie Commestibili. Ecco un piccolo estratto dal loro Mi piaccio: «Scruto nella foschia, molto lontano sirene della polizia. Mi aggiro guardinga ma calma, sul sedile posteriore la signora Maria della scala A conversa con un camionista lituano dal finestrino, mi pare si parli di protesi. La mia macchina è in avaria, metto le quattro frecce, mi volto a ore undici, mi vedo nello specchietto retrovisore e… mi piaccio».

Non si può far altro che i complimenti ai Nobody Cries for Dinosaurs per il battesimo davvero felice. Un nome che, in fondo, rivela un pessimismo leopardiano, un po’ in contraddizione con l’approccio pop dance delle loro canzoni.

Meno sofisticata invece la scelta dei Trapana Sottana che, sorprendentemente (o no?), hanno una donna come cantante.

Suscitano una certa simpatia i Triciperatopi, soprattutto per la tragica epopea di un tricheco raccontata in Problemi ed Incombenze di un Giovane Odobenide delle Isole Parry.

Senza speranza invece i The Crocs: il loro crossover e i pezzi aggressivi come Living in Danger si scontrano fatalmente con l’immagine dei famosi ciabattoni di gomma.

Su tutt’altro versante invece i Satan is my Brother, altra band strumentale di culto nata nella prima metà dei 2000. I loro live generalmente sono costituiti da un’unica lunga suite a commento del filmato che scorre alle loro spalle. Nonostante il nome, non c’è niente di satanico nella loro musica. O forse sì?

Bello anche l’accostamento proposto dai Soviet Malpensa.

Don Mazzi non gradirebbe invece quello dei Teenage Gluesniffer (omaggio ai The Queers).

Citazione d’obbligo infine per il duo Wolfango, il cui nome a triplo strato è un piccolo capolavoro: c’è il riferimento a Mozart, ma c’è anche il lupo e c’è pure il fango. Elementi che compongono, appunto, una stralunata e rumorosa favola musicale («Preferisco stare in ozio che volare nello spazio ai confini con il Lazio»).

DISPUTE – Per chiudere ecco una piccola rassegna di competizioni e/o curiose gemmazioni intorno a un nome. Partiamo dal caso (non ancora giudiziario) abbastanza singolare del punk grezzo (pure troppo) de Il Body contro le delicate atmosfere rarefatte de Il Corpo. Possibili problemi di localizzazione invece per gli Interno 17 e gli Interno 7. Passiamo poi alla sana competizione in ambito artigianale tra L’Officina dei Giochi LeggeriL’Officina della Camomilla. Grande folla invece intorno al prefisso Psico: ci sono gli Psicosuono, lo Psicotaxii Psychic twins, gli Psychords e i Psychofonic Nurse (citazione degli Psycheledic Furs?); si potrebbe/dovrebbe chiudere con i TSO, ma non vale perchè sono di Sestri Levante, città che però deve avere qualcosa di strano anche lei (questo probabilmente) visto che ha ispirato sia gli Zen Circus, che gli australiani Tame Impala (a proposito di nomi particolari e di successo…).


TUTTI A LEZIONE DA MATTIA – Tra tutti questi gruppi, per ora, purtroppo non si vede un possibile Leicester. Ecco perché, forse, potrebbe essere utile conoscere, dalla viva voce dell’interessato, la genesi di uno degli pseudonimi più noti d’Italia: Adriano Meis. 

Raccontaci un po’ com’è nato questo nome. Innanzitutto: dov’eri quando l’hai scelto?
«In treno. Andavo da Alenga (una stazione che non esiste più) a Torino. Avevo un sacco di soldi in tasca, vinti tutti alla roulette, ma avevo appena ricevuto una notizia davvero terribile. Una cosa da restarci secchi».
Cosa, se si può dire?
«Un lutto. Una cosa davvero inaspettata. E inaspettabile».
E il nome è collegato con questo lutto?
«In realtà no. Quella morte mi ha solo convinto che dovevo cambiare. Che dovevo, e potevo, ricominciare da capo. Ad iniziare dal nome».
E come mai alla fine hai scelto proprio questo nome?
«Molto semplice, mi è stato suggerito».
Da chi?
«Dai miei vicini di posto, in treno. Già, io non ho inventato nulla. In pratica c’erano questi due tipi. Uno giovane e un anziano. Discutevano di iconografia cristiana. Litigavano!».
Litigavano sull’iconografia cristiana?
«Sì. È assurdo lo so, ma è così. Ma la cosa più assurda è il motivo della contesa: il giovane sosteneva che, in base alle testimonianze di Giustino Martire, Tertulliano e non so chi altro, Gesù era bruttissimo».
Bruttissimo?
«Sì, bruttissimo. L’altro però non era d’accordo. Per niente. E ha portato come esempio due statue della città di Paneade, che più o meno è nell’attuale Siria. Allora il giovane ha dato di matto. Ha iniziato a gridare Adriano! Adriano! Adriano!».
Come Rocky, più o meno…
«Chi?»
No, niente, prosegui.
«In pratica, secondo lui, quelle statue non rappresentavano Gesù, ma l’imperatore Adriano. Insomma a me questo nome, Adriano, cioè uno scambiato per uno morto (e risorto), per di più, a quanto pare, brutto proprio come me, mi piaceva. Parecchio. Così mi son detto: Adriano è perfetto».
E il cognome? Meis da dove salta fuori?
«Sempre da sti due invasati. Il vecchio escludeva senza appello che potesse essere Adriano, ne era certo perché lo sosteneva un certo Camillo de Meis. Quando è stato pronunciato questo nome la discussione si è come spenta. Come se questo De Meis fosse l’autorità assoluta. Indiscutibile. Mi è sembrato anche questo perfetto. Ho tolto il “De”, che fa nobile e proprio non m’andava, e ho tenuto il Meis. Adriano Meis, bello, semplice. Funziona».
Dopo un paio d’anni però l’hai abbandonato. Cos’è successo? Perché sei tornato al tuo vero nome?
«Mah, sono successe tante cose. La principale però è che, nonostante mi fossi scelto un nome fantastico, ne incontrai uno ancora più fantastico, una vera forza della natura: Terenzio Papiano. Capisci che con un gigante del genere, non potevo proprio combattere. Terenzio Papiano contro Adriano Meis: lo svantaggio era troppo. Così mollai tutto e tornai al mio vecchio nome. E alla mia vecchia vita. A quello che ne era rimasto per lo meno».
Ma è assurdo, ti sei arreso troppo presto!
«Chissà. Forse sì… Però, scusa, adesso devo proprio andare che c’ho un settimanale inglese che mi vuole intervistare. Mi hanno tempestato di telefonate, non ne posso più. Oltretutto io manco lo parlo l’inglese».

Pirandello
Luigi Pirandello (1867-1936)

 

 

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