L’Expo? Una roba da ridere

Il 5 maggio del 1881 Umberto I e la regina Margherita tagliarono il nastro della grande Esposizione Nazionale di Milano. Insomma, sì, il primo Expo. Un evento attesissimo, arrivato al termine di un periodo che bla bla bla… (In effetti è ormai passato un anno dall’inaugurazione dell’Expo mangereccio di Rho e di articoli sui suoi antenati ne sono stati prodotti a centinaia) La cosa davvero importante fu che un mese dopo i dieci colpi di cannone che diedero il via all’esposizione nei Giardini di Porta Venezia, in via San Primo al numero 10, le menti più brillanti della Scapigliatura milanese organizzarono la loro Esposizione Nazionale: la chiamarono Indisposizione di Belle Arti e, tra una risata e l’altra, di fatto inventarono quella che adesso chiamiamo arte contemporanea.

PICCOLA PREMESSA – Nel 1881 c’era un solo posto in cui l’arte poteva definirsi tale: Parigi. La capitale francese era anche la capitale dell’arte ed era governata dal pentapartito impressionista: Manet, Monet, Cézanne, Degas, Renoir. Che, giusto per farsi un’idea, nel 1881 producevano cose come queste:

Monet
Edouard Manet – Il bar delle Folies-Bergère (1881)
Monet
Claude Monet – Tramonto sulla Senna (1880)
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Edgar Degas – La lezione di danza (1880)
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Pierre-Auguste Renoir – La colazione dei canottieri (1881)

Insomma, ci siamo capiti. L’arte era una cosa seria. Meravigliosa (da lasciare senza parole) e seria. A Milano invece c’era un gruppo (una banda?) di artisti che di serio avevano in pratica solo gli avvisi di pignoramento per i troppi debiti accumulati in giro per la città. Erano gli Scapigliati. Si trovavano al Caffè Gnocchi, o all’osteria Polpetta. Buttavano giù intere bottiglie di rosso. Quelli a cui la mancanza di serietà pesava preferivano l’assenzio. Quelli che la ritenevano insopportabile l’oppio. Tra quelli che si limitavano al vino, ce n’era uno che proprio non si sapeva come inquadrare.

Lui:

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Un tipo davvero singolare, ad inizire dal nome: Vespasiano Bignami. Suo padre, un conosciuto violinista di Cremona (che è un po’ come dire un famoso pizzaiolo di Napoli), gli diede il nome dell’imperatore che fece costruire il Colosseo ma che, tra le persone, per strada, indicava tutt’altro. E non è difficile immaginarselo da bambino, ragazzino, il povero Vespasiano, bersaglio di spietate prese in giro, destinatario di nomignoli velenosi e maleodoranti. Cattiverie alle quali, probabilmente, rispondeva con l’ironia, con un disegno, magari una caricatura altrettanto velenosa. Vespasiano, detto Vespa, aveva infatti una mano prodigiosa.

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Vespasiano Bignami – Al Tivoli, Fiera di Porta Vittoria (1879)

Una mano eccezionale che, per buona parte della sua vita, mise al servizio della satira, dello sberleffo, della risata. Caricature e vignette, ma anche veri e propri happening. Come quelli in occasione del carnevale.

Vespasiano Bignami travestito da Dante Allighieri (1877)
Vespasiano Bignami travestito da Dante Allighieri (1877)

Era anche un poeta e uno storico dell’arte (venne anche eletto in consiglio comunale nel 1889). E quello che adesso definiremmo un agitatore culturale. Un tipo inquieto, pieno di idee e di iniziative. Nel 1873 fondò la Famiglia Artistica Milanese, istituzione dallo spirito anti accademico e popolare che sopravvive ancora adesso e intorno alla quale si riunirono alcune delle personalità più interessanti del periodo (Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni, tra gli altri). E fu proprio dentro questo gruppo di irregolari dell’arte che nacque l’idea di una mostra in risposta sia all’epidemia commerciale che investì la città in occasione dell’Esposizione Nazionale del 1881, sia allo stantio copione messo in scena nella collaterale Esposizione di Belle Arti nel Palazzo del Senato (in via Senato). Nacque così l’Indisposizione di Belle Arti. Una sorta di No-Expo, ma più intelligente e simpatico.

PREPARATIVI – Quando l’Esposizione ufficiale – quella degli industriali – prese forma, in molti iniziarono a pensare a un’Esposizione nazionale di Belle Arti da affiancarle (anche se ce n’era stata una l’anno prima a Torino). Venne così creato un comitato ad hoc, presieduto da Cesare Cantù, uno storico molto conosciuto in città, un tipo austero, clericale, grande ammiratore di Manzoni, autore di una Storia Universale in ben 35 volumi (si narra che quando arrivò il conteggio dei resi dalle librerie corse a San Marco e minacciò di buttarsi dal campanile). Da subito in città si animò un dibattito sull’indirizzo da dare a questa mostra: da una parte Brera e chi sosteneva la Tradizione e voleva escludere «l’arte deturpata dalla lascivia moderna», dall’altra chi voleva un regolamento che «non strangoli gli estri» come la Società Permanente. Alla fine prevalse proprio la seconda impostazione, anche se le “ferite” aperte dalla polemica (in città c’erano ben nove quotidiani, più i settimanali, i giornali satirici, ecc.) si trascinarono per un po’ (a dire il vero, il dibattito non si è ancora chiuso) e, comunque, l’impianto istituzionale della mostra piacque poco agli scapigliati milanesi. Molto poco.

Ecco il pensiero di Bignami: «I classici propugnatori di un’arte morta da 30 anni s’incaponiscono nei loro soggetti biblici e mitologici, i giovani s’abbandonano in un lago di frivolezze vuote di concetto – a Bergamo non si fanno che madonne e santi e sacri cuori, a Milano forosette e modelline in costume – raramente soggetti efficaci. È una rovina! Ma sia li uni che li altri risponderanno che bisogna mangiare, e che le commissioni bergamasche vengono tutte da preti e il pubblico milanese e forestiero compera di preferenza belle donnette. Tutto ciò è storicamente vero e inesorabile, e bisogna acconciarvisi e s’imponga ciascuno il dovere di violentare coi propri mezzi questa deplorabile situazione – onde non rendersi colpevole di premeditato suicidio morale».

Così, dopo una piccola discussione, che lo stesso Vespasiano dipinse in questo modo

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Vespasiano Bignami – Una seduta del comitato ordinatore della presente indisposizione (1881). C’è un po’ di tutto, anche uno appeso al lampadario.

si decise di procedere in proprio. Al di fuori di ogni “situazione ufficiale”. La sede si trovò abbastanza in fretta, la mise a disposizione lo scultore Pompeo Marchesi. Il suo grande studio in via San Primo 10 era in via di dismissione, sembrava fatto apposta. È vero, c’erano quelle due enormi statue di gesso impossibili da spostare (infatti, ribattezzate, sarebbero poi diventate parte della mostra), ma lo spazio era grande (300 mq) e soprattutto era di fianco al palazzo del Senato, dove Cantù e i suoi esponevano le «solite cose». Era perfetto.

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Lo studio di Pompeo Marchesi in via San Primo 10

Mancavano solo, ehm, i soldi. Fu faticoso – probabilmente ci sarebbe da scrivere un articolo solo sulla storia della raccolta fondi – ma alla fine ce la fecero. Ventimila lire, raccolte soprattutto grazie alla Famiglia Artistica Milanese. La voce iniziò a circolare tra gli artisti di tutta Italia. E la “trovata goliardica”, come la definì qualcuno, divenne invece una vera e propria mostra. La prima collettiva di anti-arte, se così si può dire. Con 170 opere provenienti da tutta Italia. Il nome, pare, lo scelse Enrico Mangili, sodale di Bignami e gran cerimoniere dell’evento. Indisposizione – spiegò ai giornalisti – «proprio come un raffreddore, un mal di testa, ce la siamo trovata addosso».

VENGHINO SIGNORI E, SOPRATTUTTO, SIGNORE – L’inaugurazione venne posticipata di una settimana per problemi logistici (sembra che ogni tanto arrivasse qualcuno del comitato dicendo: «M’è venuta un’idea pazzesca, si potrebbe…» e giù assurdità. E tutti: «Fantastico! Prepara un bozzetto»): sabato 11 giugno. La facciata del palazzo venne dipinta da Giuseppe Mentessi (purtroppo né la facciata, né tanto meno il palazzo esistono più): un tramway (grande vanto cittadino) però come usavano gli antichi greci, con tanto di Socrate a far da bigliettaio (anche se qualcuno sostiene fosse invece Diogene).

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L’ingresso dell’Indisposizione di Belle Arti. Sulla sinistra l’affresco del Tramway alla greca di Giuseppe Mentessi

Entrando, subito sulla destra, c’era la cassa (il biglietto costava 1 lira). Un cartello appeso affianco alla postazione dei biglietti recitava l’antico, e sempre valido, motto:

«Ars lunga, vita brevis: pictorum borsa sempre levis»

Appena dentro, quello che saltava subito agli occhi erano i due colossi di gesso di Marchesi (originariamente modelli per le sculture sull’Arco della Pace) che rappresentavano l’Adige e il Tagliamento. Per l’Indisposizione divennero «Sorgenti del fiume Panna, che irriga e feconda la pianura lombarda mettendo foce a Gorgonzola, dove arriva alquanto Stracchino».
Poi, sparsi sulle pareti avvisi di questo tenore: «I visitatori dovranno depositare, in luogo a ciò destinato, la propria ombra onde evitare soverchi affollamenti».
Oppure: «I visitatori più robusti sono pregati di portar pazienza anche per gli altri».
O ancora: «È riservato esclusivamente ai membri del Comitato il diritto di baciare con effusione tutte le belle signore che non potranno trattenersi di venire all’Indisposizione. Le difficoltà verranno superate».

IN GUARDIA AVANGUARDIA! Affianco al diluvio di (sincera) retorica patriottica per l’Esposizione ufficiale, sui giornali qualche colonna venne dedicata anche a questa «pazza manifestazione». Purtroppo le fotografie sui giornali non esistevano e per avere un’idea concreta di quello esposto in via San Primo bisogna affidarsi ai settimanali illustrati. Qui useremo le riproduzioni dell’Emporio Pittoresco, l’inserto gratuito de Il Secolo (il primo giornale di Milano) e i disegni de La Luna – Giornale Lunatico Illustrato, stampato a Torino proprio a partire dal 1881.

Un’opera che i giornali amarono molto – si capisce – fu la Madonna del Soccorso. Che distribuiva forbici per aiutare nella sintesi i giornalisti milanesi (i personaggi intorno all’altare sono alcune firme famose delle testate cittadine). Dono, evidentemente, che Strano a Milano ha rifiutato con sdegno.

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Giuseppe Conti – Madonna del Soccorso

Ecco adesso qualche stralcio dal reportage illustrato de La Luna. (Bisogna fare un piccolo sforzo d’immaginazione per figurarsi le opere com’erano davvero: quadri reali, spesso dipinti con grande maestria. E infatti alla fine furono circa 60 le opere vendute). Partiamo dall’irriverente omaggio a una… mamma di mare.

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Roberto Fontana – Il figlio del marinaio a poppa

L’opera qui sotto invece era un vero sacco di juta buttato sul pavimento, appoggiato al muro.

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Giuseppe Puricelli – Il sacco di Roma

A parte il gioco di parole, fu la prima volta che un sacco di juta veniva esposto in una mostra d’arte. Un materiale che avrà poi, a partire dal 1953, grande fortuna. Diventando un punto di partenza per una nuova riflessione sull’arte e sulla materia.

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Alberto Burri – Composizione (1953). Guggenheim Museum, New York

Il mezzo è la risata, il gioco, la goliardata, ma il risultato è qualcosa di più profondo. Che arriva ad uno dei punti chiave della riflessione del 900: che cos’è l’arte. Quali sono i suoi limiti. La risposta degli scapigliati dell’Indisposizione è che l’arte non ha – perché proprio non ce la fa – limiti. Neanche quelli fisici della cornice.

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Fra Formica – Effetto di barba con sole

Ricordiamoci di immaginare l’opera reale, quello che i visitatori effettivamente vedevano: un ritratto dal quale spuntavano letteralmente fuori dei peli. Ed anche la tradizionale bidimensionalità del quadro poteva dirsi superata.

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Piero Manzoni – Achrome (1961)
Gino De Dominicis - Senza Titolo (1985)
Gino De Dominicis – Senza Titolo (1985)

E che dire di un’opera, Il Pittore Bigotto di tale Angelico Beato (i nomi, come si sarà intuito, erano quasi tutti inventati, spesso risultato di scherzose alterazioni), di cui abbiamo solo la descrizione: un quadro raffigurante un pittore che spia la modella nuda attraverso un buco nella tela che sta dipingendo. Vi ricorda qualcuno?

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Lucio Fontana al lavoro (1962)

E infine il pezzo forse più pregiato di tutta la rassegna milanese. Un’opera destinata, a sua insaputa probabilmente, a scrivere una pagina nuova (tutta bianca) della storia dell’arte.

Questa:

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Raffaello Sazio – L’arte che tutto fa nulla mostra

Una tela completamente bianca. Un’opera che pare piombata nella “preistoria” del 1881 con una macchina del tempo. È proprio l’assenza totale (che è anche, allo stesso tempo, una totale pienezza) che rappresenterà nel 900 un ennesimo punto di rottura. C’era anche un biglietto che diceva: «Quadro non incominciato per morte dell’autore». Più profetico di così.

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Kazimir Malevich – Quadrato bianco su fondo bianco (1918)
Piero Manzoni - Achrome
Piero Manzoni – Achrome (1960)
Robert Ryman - Allied 1966)
Robert Ryman – Allied (1966)

Come profetico appare anche il “catalogo” della mostra, il Libro d’Oro, un volume pieno di trovate, di invenzioni, di spunti che è, di fatto, un compendio, travestito da scherzo, di un nuovo modo di intendere l’arte.

Il Libro d'Oro dell'Indisposizione di Belle Arti
La copertina del Libro d’Oro dell’Indisposizione

E, a proposito di macchine del tempo, nell’introduzione al libro c’è questa sentenza:

«Il riso esiste: quindi c’è»

Ottant’anni dopo, Piero Manzoni (uno che con gli scapigliati avrebbe trascorso volentieri qualche ora in osteria, se non altro per il vino), nel suo La ricerca dell’immagine scrive:

«[L’immagine] non allude, non ricorda, non va spiegata come allegoria di un fatto fisico: è»

Un ponte temporale (fatto di tuoni e fulmini…) che unisce l’avanguardia degli anni Sessanta a quella, scherzosa e irridente, della fine dell’Ottocento. E collega l’opera d’arte al riso. La rivoluzione allo scherzo.

PIENONE – L’avanguardia artistica e culturale travestita da burla funzionò. La processione nei locali di via San Primo era costante, anzi, divenne un appuntamento imprescindibile dei visitatori dell’Esposizione nazionale ai Giardini di Porta Venezia. Si può azzardare anche che qualcuno bucò l’Esposizione di Belle arti nel palazzo del Senato preferendole quella molto più “utile” degli scapigliati. Alla fine si contarono 40.000 visitatori. Per un  incasso di 40.000 lire, il doppio di quanto speso per allestirla. Non male per una burla. L’indisposizione fu un grande regalo che la scapigliatura fece alla città e non solo a lei. Un regalo, in qualche modo d’addio, visto che la stagione di questo variegato ed irrequieto movimento, sempre in bilico – come ha detto qualcuno – tra farsa e tragedia, andava esaurendosi. La città stava cambiando, rinunciava a qualche bislacco ricordo, a qualche malinconico pezzo di storia per farsi investire dalla modernità. Un momento che Pietro Madini nel suo “La Scapigliatura milanese: notizie e aneddoti” (1929) racconta così:

«Gli artisti vedevano così tasformarsi la Milano fine, intima, che fino allora aveva dato la preminenza alla vita intellettuale, più che ai traffici e alle officine. E allora cominciarono a smarrirsi. La febbre che invadeva le strade li disperse. Il lato più gaio della loro esistenza cessava, e quindi appariva più aspra la lotta per la vita. Le loro oasi verdi e tranquille sparivano per far posto alle case, non sempre belle. A uno a uno sparivano i loro cari antichi cenacoli. Anche l’umorismo se ne andava. 
Alcuni lasciarono la città, e si ritirarono nelle loro borgate. Altri cambiarono arte: altri, credendosi abbandonati, cedettero alle lusinghe di ingordi speculatori o migrarono all’estero. Altri si immisero nelle comode strade burocratiche».

Ah, visto che siamo in tema di “stagioni che finiscono”, ecco in che condizioni è il volume di Medini conservato alla Sormani, letteralmente cade a pezzi.

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Pietro Madini – La Scapigliatura milanese: notizie e aneddoti (1929), Biblioteca Sormani

Il tempo, in pratica, lo sta trasformando in un Isgrò naturale. Un’opera che avrebbe potuto fare la sua figura all’Indisposizione di via San Primo.

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Emilio Isgrò – Libro cancellato (1964), Museo del Novecento

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